mercoledì 20 febbraio 2013

"Animali ... che siete altro!", da: "L'uomo nudo con le mani in tasca"



Animali che... siete altro!
 (da pagina 91 a pagina 96)
[Romanzo ancora in fase di editing per una prossima uscita rivista e corretta]

Nella casa dei miei genitori mi aveva sempre colpito la foto di Puffi, in bella mostra di sé, tra le foto del mio matrimonio, quello di mia sorella e le foto dei loro  nipoti. I nostri figli. Quasi dissacrante se non avessi saputo il legame tra Puffi e soprattutto mia madre.
Puffi è stato il cane adottato dai miei genitori, o meglio, a loro affidato da mia sorella. Quando aveva tre anni. È  morto a sedici anni, verso la fine di quel luglio. Quando per la prima volta si era trovato senza i miei genitori e la famiglia di mia sorella. Entrambe agli ultimi loro giorni di vacanza.
Dico per la prima volta perché i miei genitori, da Puffi, non si erano mai separati. Andava anche in vacanza con loro e fino a pochi anni prima anche con me, prima di sposarmi, dal campeggio dove era il rompi...timpani dei vicini di tenda, con un senso del possesso che rasentava il patologico anche per un cane, al nostro appartamento a Metaponto. Al mio, tecnicamente. Quattro anni di cambiali firmate da me e pagate da mio padre, in sostituzione di uno stipendio mai percepito. Quell’anno Puffi era troppo stanco, problemi di cuore e di ossa, reumatismi e... insomma: era molto vecchio e proprio la sua presunta incapacità di salire ogni giorno tre piani di scale insieme ai miei genitori aveva loro consigliato di lasciarlo a casa. Dove io e mia moglie eravamo rimasti, visto che dovevamo partire in vacanza nel canonico agosto. Per non parlare del lungo viaggio in macchina che mal avrebbe sopportato: mille e più chilometri solo di andata.
C’eravamo quindi solo io e mia moglie. Andrea, nostro figlio, si sarebbe unito a noi tre anni e cinque gatti dopo, questa volta nostri.

Quella Domenica mattina di fine luglio non lo trovammo sul terrazzo di casa dove solitamente si metteva. Lo chiamammo a lungo, consapevoli che non era pressoché in grado di andarsene a zonzo, né avrebbe trovato validi motivi canini per farlo. Iniziammo anche a cercarlo nei dintorni, poi mi venne un’intuizione e dal bosco passai nel giardino di mia sorella, qualche centinaio di metri più distante. E fu lì che lo trovammo, sdraiato e rantolante nel prato dove aveva passato i suoi primi tre anni di vita.  Ci rendemmo subito conto che stava morendo. Alzò appena gli occhi a guardarci di sfuggita, con grande sforzo, e poi si lasciò  andare, agonizzante. Chiamammo il veterinario che ci confermò il sicuro epilogo che noi avevamo già percepito. Gli fece un’iniezione letale, una benedetta eutanasia, e poi acconsentì, contravvenendo alla legge ma ascoltando il proprio cuore e il suo buon senso, a lasciarcelo. Lo seppellimmo sotto un albero, nel luogo che era stata la sua prima “casa”.  Durante quell’ultima procedura tenni la mano sul suo capo, lo salutai commosso, ma non provai disperazione per la sua fine, nonostante i molti anni vissuti insieme. Il sentimento che provavo era empatico, era proiettato sull’imminente dolore che avrebbe dilaniato mia madre l’indomani, al suo previsto rientro dal mare. Già in quella mattina aveva chiamato al telefono chiedendo insistentemente di Puffi. Non ebbi cuore di dirle qualcosa. Ma lei lo presagiva, lo so, come mi confermò in seguito.
Già essere partita per la prima volta senza Puffi non le era sembrato né normale né giusto. Avevo percepito che Puffi aveva fatto di tutto per resistere fino all’arrivo di mia madre. Si mancarono davvero per poche ore, ma penso che sia stato meglio così: non aver avuto negli occhi gli ultimi istanti di agonia di Puffi è stato meglio per lei , anche se non superò mai del tutto il senso di colpa per non essere stata accanto a lui per salutarlo l’ultima volta. Senso di colpa che lei stessa scelse di indossare.

Puffi. Un bastardino nero e peloso, con la dimensione e la coda di un volpino e il muso di un pastore belga. Nato appunto da un incrocio tra queste due razze, femmina volpina e maschio pastore belga. E la volpina era stata anche sterilizzata. Non avrebbe dovuto semplicemente nascere.
Ma aveva un incontro da vivere: quello con mia madre. Per mia madre fu un terzo figlio. Né più né meno.

Io a Puffi gli volevo bene ma non ho mai avuto con lui un feeling speciale. Ci accettavamo e condividevamo spazi e momenti ma non era propriamente il mio primo pensiero del giorno.  Erano più le volte  che il suo modo casinista di fare mi dava fastidio che quelle in cui mi faceva sorridere disegnarmi . Viveva dentro il bar, trattoria e pensione che gestivamo in famiglia ed ero imbarazzato per la poca igiene che Puffi rappresentava, immerso in quell’ambiente. Ogni tre per due abbaiava agli occasionali avventori che ancora non conosceva e spesso anche ad alcuni habitué che proprio non gli andavano a genio. Lui solo sapeva perché, a ragione o torto.

Perché scrivo di un disagio? Un disagio che ovviamente è solo un effetto e non la causa illuminante È presto detto: nella mia precedente immersione nei panni affettivi, dentro la cesta degli accumuli vissuti, ho trovato ancora un amore, un altro mio amore corrisposto, che altro non era che l’ennesima panacea  che allora più che mai cercavo.
Trovando quella storia ho immediatamente compreso altre dinamiche e nella fattispecie il mio non-legame con Puffi.
Quando ho guardato quel vecchio panno dimenticato ho esclamato subito: Dingo!!!
Avete letto bene. Non Bingo, ma proprio Dingo.
Come scrisse sempre Proust (scusatemi ma ultimamente La Recherche è la mia lettura nei momenti “morti”, in attesa di altri libri che ho prenotato nella biblioteca comunale):
“Per quanto un amore si dimentichi, può determinare la forma dell’amore che seguirà”.
Proprio così.

Avevo dodici anni circa, l’età che adesso ha mio figlio. Si era nel periodo estivo e quindi potevo fermarmi anch’io lì al nostro bar fino alla chiusura, non avendo obblighi scolastici.
Era  sera, la luce ancora permaneva, anche se  ancora per poco, ero in terrazza insieme a mia sorella e ad alcuni clienti del bar che consideravamo ormai di famiglia. Come spesso succede  nei piccoli bar di paese, a gestione familiare, che diventano punti di ritrovo fissi per tante persone e si diventa come una grande famiglia.
Guardai quasi distrattamente verso la palizzata in cemento che costeggiava il prato della ferrovia, e lo vidi.
Marroncino chiaro, pelo raso e media corporatura. Per quel poco che ne capivo mi sembrava un cane giovane, forse per il suo modo di muoversi quasi...adolescenziale. Non  saprei  come descriverlo diversamente. Ma sta di fatto che lo vidi. Uscii dal mio bar, quasi senza pensarci, attraversai il piazzale e quel meticcio, quasi avvertendo le mie intenzioni, mi corse letteralmente incontro facendomi feste di gioia quasi imbarazzanti. Fu amore a prima vista e forse anche prima. Ad ogni mia carezza, ad ogni appellativo vezzeggiativo, lui faceva gran balzi reggendosi solo con le zampe posteriori e uggiolando felice. Ma la manifestazione più evidente della sua gioia era il frenetico sbatacchiare della coda talmente forte si agitava che lo faceva stare di traverso, per tre quarti, quando ricadeva su tutte e quattro le zampe.
Non aveva collare e quindi immaginai fosse un cane randagio o abbandonato. Ma questo particolare me lo fece poi notare mia madre.
Io mi ricordo che gli portai, davanti alla porta del bar dove ovviamente mi aveva seguito, una vaschetta d’acqua e del pane avanzato del giorno ai quali lui fece onore. Per fame o per educazione, non so.
So soltanto che cominciai a chiamarlo istintivamente “Dingo”.
Mi piaceva quel nome, era adatto a lui. Proprio nel pomeriggio avevo visto un documentario naturistico sull’Australia e avevo appreso dell’esistenza dei dingo, i cani selvaggi di quel continente. Inoltre aveva assonanza per me importante col nome “Ringo” , uno dei miei eroi cinematografici dell’epopea western. E poi chiamandolo con quel nome lui aumentava i movimenti a ventilatore della coda. Quelle dimostrazioni d’affetto prevalentemente nei miei confronti parvero curiose e particolarmente speciali anche a tutti quelli che avevano visto e che erano lì al bar. Familiari compresi. Già sentivo che lui era diventato il “mio” cane. Avevo una gioia che nemmeno sapevo di avere ma che riversavo totalmente  nel ricambiare le sue moine.
Si fece tardi, gli ultimi clienti andarono via e venne il momento di chiudere e abbassare le saracinesche di ferro e per me di andare su in camera a dormire. Mia madre mi chiamò dal marciapiede del bar dove ancora stavo giocando con Dingo sollecitandomi ad entrare. Ubbidii prontamente invitando il “mio” cane a seguirmi. Mia madre mi disse che lui non poteva entrare, che era un cane randagio e che doveva restarsene fuori. Mi si fermò quasi il cuore. Ma come? Non mi era proprio possibile lasciarlo fuori da solo, nella notte, mentre io stavo al caldo della mia camera! Insistetti piangendo a lungo ma lei fu irremovibile motivando con logica quella sua scelta. Ma la logica con il mio desiderio non c’entrava nulla! Fu una notte drammatica di pianti disperati, quella, per me. Come se mi avessero strappato un pezzo di cuore a mani nude.

Questo momento, che avevo in seguito rimosso, forse è la spiegazione della mia velata insofferenza per i privilegi invece accordati a Puffi da mia madre stessa. Inconsciamente incolpavo Puffi per l’incongruenza di quella condotta che aveva concesso a lui di entrare a far parte della famiglia, mentre a Dingo, a suo tempo, l’aveva  negata. Incolpavo Puffi perché incolpare mia madre mi sarebbe stato impossibile per il nostro comune vissuto e reciproco dipendere in qualche modo l’uno dall’altra. E dall’addomesticamento avuto di tutta la mia vita di ultra dodicenne. Sta di fatto che mi sentii tradito due volte ma, ripeto, fino ad ora non avevo mai nemmeno collegato i due lati diversi della stessa medaglia, anche se la mia ferita emotiva aveva trovato motivo di farsi comunque sentire. Forse.

L’indomani mattina, appena svegliato e sceso al bar, corsi fuori a cercare Dingo. Non lo vidi. Non subito. Attraversai la piazza e tornai nel punto in cui l’avevo visto la sera prima e lo chiamai. Immaginatevi la mia gioia quando lo vidi uscire correndo dal prato della ferrovia a tre quarti, di traverso, con la coda a mulinare impazzita nell’aria! Si era fermato lì a dormire, il “mio Dingo! Avallai questa sua scelta andando a portargli lì da bere e da mangiare, e tacitamente accettammo di promuovere a sua dimora quell’angolo di prato sotto l’alto abete che sovrastava in quel punto la piazza della stazione.
Dingo rimase con me un paio di mesi, notti escluse.
Fino alla mattina in cui non lo trovai più ad aspettarmi. Lo chiamai a lungo, lo cercai tutto il giorno e piansi. Piansi a lutto.
Poi l’esistenza, come sempre, prese il suo consueto passo di mutamenti in mutamenti senza mai darti l’idea di cambiare alcunché. E Dingo rimase un po’ nei miei ricordi come una ferita che da aperta lentamente prova a rimarginarsi. Fino al momento che “guarisce” e nemmeno più ti ricordi di averla avuta, quella ferita. E il pensiero di lui, perso in qualche posto, solo, da lacerante si affievolì fino a svanire nelle rinnovate mie quotidianità.

 Ciao Dingo. Ero io quello solo. Tu avevi già te stesso. Sai, adesso sto imparando a cercarmi come conviene. Quando mi sarò trovato un po’ di più, forse saprò amare senza dipendenza. Come tu già allora hai provato ad insegnarmelo. A modo tuo e con incondizionato Amore nell’unico tempo al presente che per te potesse mai esistere. Grazie, Amico mio ritrovato nella memoria e nel cuore. Grazie, Dingo.
E oggi, il tuo ricordo ancora mi illumina. In tutti i sensi.


Ci rincontreremo noi due, a metà di questa grande festa che non può mai finire. Come Richard Bach mi ha insegnato in uno dei suoi tanti libri speciali: “Nessun luogo è lontano”.

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